Storia di Cencio e Jako e un’isola lontana Peppino Zangrando € 16.00 2012
È un libro picaresco, o meglio di “ulissidi” in fuga dal mondo e con nostalgia dell’oikos della casa e della terra natia. Sono perseguitati dalla sfortuna, ma non manca il sorriso sui loro volti. Gli occhi guardano lontano, e la malinconia li volge indietro ai villaggi che hanno conosciuto, alle donne che hanno amato. Non cercano ricchezze, ma un lavoro che li sfami e consenta di bere un buon vino per attenuare la tristezza.
Le donne sono pronte alla legge di natura, alle “strussie”, preparano il cibo, lavano i piatti, fanno figli, piangono ma non cedono allo sconforto. Donne senza morbidezza nelle mani come le siciliane di Vittorini, gelose forse per questo, ma capaci di far felice un uomo.
Se abbandonate si disperano, ma poi si alzano in piedi e tirano avanti cantando la canzone serba “tamo daleko, daleko preko mora, tamo je moje selo, tamo je ljubov moia”, nata nei campi di prigionia quando i soldati serbi sconfitti furono salvati dalla marina italiana nel porto di Valona.
Anche le donne di vita sono descritte con tenerezza, con il rispetto dovuto a quelle che esercitano un mestiere antico come quello del soldato: dar via la “picka” diventa un gesto di solidarietà come offrire acqua a un assetato, anche per loro si apriranno le porte del Paradiso. Non avranno letto “la lettera scarlatta” di Hawthorne, ma hanno il senso della dignità conquistata attraverso la sofferenza: “una cattedrale sommersa”.
I protagonisti entrano ed escono dalla prigione, non perché abbiano rubato o ucciso, ma perché anarchici, sovversivi, soprattutto ribelli contro le ingiustizie dei potenti.
Quando escono non sono pentiti, continuano la loro vita raminga a testa alta, pronti alla rissa contro una nuova prepotenza. Orgogliosi come i re normanni raccontati in “conversazione in Sicilia”, non piegati dalle sventure, “biondi e con gli occhi azzurri”.
Quando Cencio assiste a una esecuzione a Pian delle Forche sente freddo nel suo animo, ma non si chiede se “meglio sarebbe non essere nati”, anche se la domanda circola inespressa in tutto il libro, Zangrando ha certo studiato filosofia, e se ama la vita sa anche che “molte ha la vita forze tremende, eppure più dell’uomo nulla è tremendo”.
I protagonisti del libro non sono mai tentati dal suicidio, anche nelle situazioni più disperate, e fanno di tutto “per portare a casa le palle”.
In effetti, pensa Cencio, “i matti non sono in manicomio, ma quelli che circolano per le strade”. Non si spiegherebbero altrimenti le guerre, i massacri tra i popoli, gli odi ancestrali.
La diaspora bellunese comincia, se ben ricordo, alla fine della Serenissima quando gli Imperi centrali e i Balcani offrivano lavoro meglio pagato. Seguono i sentieri degli “anziponat” per salire al nord, o si imbarcano a Venezia per raggiungere le Yugoslavia, la Serbia, la Dalmazia.
Non ci sono Giasoni né Medee, ma semmai uomini come Tersite, carne da lavoro e da macello, che solo l’esperienza delle umiliazioni fa piegare la schiena al duro lavoro, con negli occhi però uno sguardo di sfida che si trasforma in canti rivoluzionari in qualche “gostiona”.
Insieme agli uomini e alle donne è protagonista il mare, “more”, “thalassa”, con le sue bonacce e la furia della bora. Nelle isole dalmate a questi picari, che non sono i popolani astuti e furfanti della tradizione letteraria, ma vagabondi dall’animo nobile, concede ore felici: fra il mirto, il rosmarino e la salicornia scambiano parole, cantano, ricordano le vicende passate con la malinconia degli esuli.
Talvolta incontrano o diventano fantasmi, come “Jelena la pazza “ discendente della nobile famiglia fiorentina dei Machiavelli, che aveva sposato Najo e aveva avuto un figlio, Zoran. Il marito e il ragazzo erano stati uccisi ai confini del Montenegro da guerriglieri che avevano dato fuoco al paese.
Jelena aveva recuperato i resti dei suoi cari e li aveva inumati nella tomba di famiglia. Perdette il senno, si nascose nel bosco a vivere con gli animali, si nutriva di bacche e di radici, e aveva cancellato il mondo coi suoi lutti.
In uno degli ultimi capitoli Ljuba racconta al marito la storia di Ulisse, che dopo l’incendio di Troia tentò di tornare a Itaca e per dieci anni vagò nel mare, fra pericoli e avventure, pensando alla moglie e al figlio. “Storia che si ripete nei secoli” disse Ljuba “e le onde del mare la raccontano ai naviganti che sanno ascoltare”.
Il cerchio si chiude con questo richiamo a Ulisse che è il sigillo del libro. “i giorni passarono come ombre/ i minuti rotolarono come stelle”.
Fra i tanti libri della sua bibilioteca sembra che Zangrando abbia scelto come ispirazione “Gargantua e Pantagruele” di Rabelais, ma a rovescio: non il vagabondaggio fine a se stesso, la smodatezza, il lazzo osceno, ma l’allegria di chi sa che domani piangerà. Il “furore” di Steinbeck si trasforma in furore austroungarico, balcanico, bellunese, e i protagonisti sono gli stessi: contadini, boscaioli, minatori contro i “bravi” dell’Impero.
Il critico dello stile è tenuto a “curare de minimis”. Hegel diceva che “l’arte ama indugiare nel particolare”, solo così si riesce a “mettere in rapporto buccia e polpa” scrive Mengaldo “interno ed esterno”.
Lo stile di Zangrando è una lingua sospesa tra l’italiano e il bellunese, con un ritmo sconosciuto alla letteratura. Quasi in ogni pagina c’è una parola in dialetto o in slavo, neumi che danno una musica triste o gioiosa a seconda degli eventi, e si deposita nell’animo, indimenticabile.
Giorgio Tosi.